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Intervista a Lelio Camilleri

Compositore e docente di musica elettronica, Lelio Camilleri è un profondo conoscitore dell’universo che abbraccia le più diverse esperienze musicali connesse all’impiego della tecnologia. Alla sua multiforme attività aggiunge da quest’anno la docenza nel nuovo Triennio di Musica applicata della Scuola, dove insegnerà Composizione per la musica applicata alle immagini e Composizione musicale elettroacustica.

Onorati della sua partecipazione al nuovo percorso accademico, gli abbiamo chiesto di parlarne con noi.

Come definirebbe il Triennio di musica applicata?
Penso che sia un’opportunità formativa importante, la prima di questo tipo per l’Italia centrale: non solo è il primo triennio del genere in Toscana, ma mi risulta non ci siano corsi simili neppure nelle regioni vicine, come Umbria e Marche.
Finora siamo stati abituati a vedere il compositore che lavorava nel settore audiovisivo come un musicista che, compiuto un percorso accademico tradizionale, imparava artigianalmente il mestiere; i più bravi e fortunati facevano un’ottima carriera, gli altri… meno.
Col passare degli anni si è capito invece che ci vuole una formazione specifica, perché scrivere della musica che si integri con le immagini non è semplice, soprattutto per l’importanza che l’abito sonoro conferisce all’espressione visiva (se pensiamo di togliere l’audio, esclusi i dialoghi, la maggior parte delle scene dei film non è più in alcun modo godibile).
Il percorso accademico offre una preparazione sistematica e non frammentaria, e ai docenti spetta il compito di sollecitare la cifra creativa di ciascuno degli studenti, in modo da permetter loro di sviluppare un pensiero originale, da mettere poi al servizio delle immagini. Compito della formazione è quindi anche il sostegno alla creatività, così da scongiurare il pericolo di figure mediocri che replicano cliché già visti, producendo musiche derivative.

Com’è articolato il piano di studi?
Il compositore che si occupa di musica per audiovisivi non può prescindere dalla tecnologia perché, a parte i cine-concerti, tutto il resto si basa su musica riprodotta, che quindi vive in diverse fasi creative, produttive e post-produttive.
Nel campo della cinematografia gli attori di questo processo sono molti, quindi non è detto che sia il compositore ad occuparsi della postproduzione e del montaggio audio (specie ai livelli più alti) ma, se è in grado di farlo, il compositore può essere autonomo nella gestione di lavori meno complessi. Alcuni miei ex studenti si occupano anche del mastering di film importanti, che vanno alla Biennale di Venezia!
Il Triennio di musica applicata offre prospettive diverse, che derivano dalle differenti competenze dei docenti, che abbracciano vari settori: ci saranno un professionista che si occupa specificamente di musica per film come Paolo Vivaldi, un compositore come Marco Biscarini, che compone per il cinema ma proviene dal settore della musica elettronica, e poi i docenti del settore della tecnologia musicale – Damiano Meacci, Roberto Neri e Roberto Prezioso – che hanno solide competenze e attività professionali in questo ambito.
Io mi occupo della scrittura elettronica, il che significa non tanto usare le macchine, ma avere una preparazione solida su come usarle creativamente, con quale tipo di linguaggio, e con quale approccio rispetto al rapporto con le immagini.
Alcuni corsi puntano tutto sulla struttura strumentale, ma mi sembra una scelta parziale, dato che oggi il linguaggio musicale per gli audiovisivi è estremamente ampio: nelle serie tv americane, ad esempio, c’è un lavoro di creazione musicale che utilizza approcci non convenzionali, con suoni solo elettronici o compresenza di suoni acustici ed elettronici. È giusto che lo studente abbia anche questo tipo di competenze, per avventurarsi nel mondo della creazione musicale per audiovisivi.

L’aumento esponenziale dell’uso della tecnologia da parte dei giovanissimi avvantaggia gli studenti di oggi?
Certamente il fatto che per molti ragazzi la pratica tecnologica sia un’abitudine quotidiana rende le cose più semplici. Quando ero ragazzo, anche solo avere un registratore a nastro era fuori dall’ordinario.
D’altro canto, la facilità dell’uso del mezzo tecnologico per produrre musica determina la conseguenza che i ragazzi lo facciano spesso senza una conoscenza profonda, né del mezzo tecnologico né del linguaggio musicale con cui potrebbero esprimersi attraverso la tecnologia. Magari hanno una buona conoscenza del singolo programma ma mancano di competenze sistematiche, e questo comporta l’incapacità ad andare oltre la possibilità di ripetere le procedure in maniera imitativa, non sapendo gestire opzioni alternative. Diciamo che, se in passato si trovavano studenti tecnologicamente digiuni, oggi è difficile che l’allievo non sappia già usare il computer per produrre dei suoni, ma il lavoro da fare è comunque molto.

Che tipo di studenti vi aspettate?
I ragazzi che arrivano al triennio accademico provengono spesso dal liceo musicale, dove hanno acquisito le conoscenze tecnologiche di base (o almeno lo speriamo…) e nel Triennio di musica applicata potranno sviluppare questo settore; altri allievi hanno studiato più a fondo uno strumento, e anche questa può essere una buona partenza, che permetterà di abbinare competenze più strettamente musicali alla conoscenza dei mezzi tecnologici.
I ragazzi di oggi usufruiscono dei prodotti audiovisivi in modo massiccio, perché film e serie tv fanno parte della loro vita quotidiana, quindi alcuni potrebbero combinare l’interesse per queste forme di creatività con l’attività musicale. Del resto un grande compositore di musica per il cinema come Bruno Coulais diceva che “per scrivere musica per il cinema bisogna amare il cinema e conoscerlo”, il che non è affatto una banalità.
Per la nostra generazione il rapporto col cinema passava esclusivamente attraverso la frequentazione delle sale, mentre oggi i ragazzi vivono quotidianamente una vera e propria immersione nell’audiovisivo. Se un giovane ha interessi musicali creativi può trovare nel contesto audiovisivo qualcosa che lo attragga, anche perché si tratta di un universo molto variegato, tra cinema, serie tv, pubblicità.
In questo momento c’è un grande impulso alla produzione di videogiochi: un mondo in cui sia la parte musicale sia la parte esclusivamente sonora sono molto articolate, e in modo differente dal cinema (dove lo sviluppo della parte musicale è lineare, mentre nei videogiochi prevale la frammentazione). Anche la passione per i videogiochi può essere un punto di partenza, per un giovane che voglia sviluppare una creatività musicale applicata all’immagine.

Lei come è arrivato a questo tipo di interessi?
Ho avuto molta fortuna, perché nel 1975 mi sono iscritto al corso di musica elettronica al Conservatorio di Firenze, il primo ad avere istituito un corso del genere (nel 1965!), grazie alla presenza di un personaggio straordinario come Pietro Grossi, di cui sono stato allievo e collaboratore per moltissimi anni.
L’incontro con Pietro Grossi ha cambiato la mia vita, e molto importante è stato anche seguire le lezioni di Albert Mayr, a sua volta allievo di Grossi.
Grossi è stato uno dei pionieri sia della musica elettronica sia della musica per il computer. Era un grandissimo musicista a tutto tondo, e anche nell’ambiente della musica elettronica non era un personaggio convenzionale: aveva le sue idee, che a volte sembravano addirittura strampalate, ma in realtà erano lucide visioni del futuro.

Veramente un precursore… è stato anche l’artefice del primo tentativo di trasmissione telematica del suono – una specie di “proto-streaming” – nel 1970. Come si poneva nell’ambiente del Conservatorio?
Era così convinto delle sue ricerche e delle sue realizzazioni che non era possibile smontarlo. Inoltre godeva di uno status di musicista ‘alto’, perché aveva ricoperto dai 18 anni il ruolo di primo violoncello nell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, e aveva avuto una intensa attività concertistica, interrotta bruscamente per la totale dedizione alla musica elettronica.
In ogni caso era circondato dal rispetto di tutti, ed eventuali critiche non lo toccavano minimamente.

L’ambiente fiorentino era comunque piuttosto vivace
Proprio così: Firenze è stata una fucina di iniziative interessanti, con numerosi collegamenti fra le arti. Ad esempio Grossi e Mayr facevano parte del collettivo Zona (1974), insieme ad artisti visivi come Maurizio Nannucci, Paolo Masi e Mario Mariotti.
Gli anni ‘80 hanno visto la nascita di Tempo Reale, con l’impulso decisivo della personalità di Luciano Berio. Tempo Reale si è poi sviluppato autonomamente negli anni 2000, grazie all’accurata e appassionata gestione artistica del mio fraterno amico Francesco Giomi, incrementando i tanti settori dell’applicazione della tecnologia alla musica: dal tempo reale, cioè la trasformazione del suono degli strumenti acustici dal vivo, a tante altre ricerche e realizzazioni, fino alle installazioni e alla creazione della musica in luoghi particolari, per cui Francesco fa cose meravigliose, oltre a dare un grande spazio ai giovani talenti.

Intanto lei si interessava sempre di più al rapporto suono-immagine…
Infatti, e ho contribuito all’impulso di questo settore anche in ambito didattico: al Conservatorio di Bologna, dove insegno dal 1992, abbiamo oggi un Master internazionale post lauream per la musica per audiovisivi in lingua inglese, INMICS, che ci vede collaborare col Conservatorio di Ghent in Belgio, la Facoltà di musica dell’Università di Montreal e il Conservatorio di Lione. La selezione all’ingresso è molto dura, perché i posti sono pochi e i candidati provengono da tutto il mondo, per frequentare in due paesi diversi le due annualità previste. In questo master c’è un collegamento diretto con tre festival cinematografici che danno ampio spazio alla parte musicale: il Festival del cinema di Aubagne, in Francia, il Festival del cinema di Cracovia e il Film Fest di Ghent, che ospita i protagonisti della composizione musicale per il cinema.

Come è entrato in contatto con la Scuola? Ha conosciuto da vicino Piero Farulli?
Incontravo Piero Farulli al Conservatorio di Firenze quando ancora vi insegnava, e poi ho avuto occasione di ascoltarlo in contesti pubblici, ma non lo ho conosciuto personalmente; una lunga amicizia mi lega a suo nipote Antonello, perché ci siamo incontrati da piccoli e siamo rimasti sempre in contatto, anche grazie all’appartenenza di entrambi al corpo docente del Conservatorio di Bologna.
Il mio rapporto didattico con la Scuola è invece recente: negli ultimi anni ho tenuto a Fiesole alcuni corsi che ricordo come una bella esperienza, perché negli studenti di composizione ho trovato un gruppo vivace. Anche il corso di musica applicata organizzato dalla Regione Toscana e gestito dalla Scuola presso la Casa della Musica di Arezzo è stato davvero interessante perché, nonostante la disomogeneità di competenze musicali tra gli allievi, siamo riusciti a tener viva l’attenzione di tutti ed ottenere lavori di buona qualità.

Parlavamo di Firenze…come vede la vita musicale di adesso?
Firenze è un po’ sonnacchiosa, il che è un vero peccato perché qui sono iniziate molte cose, ma non tutte sono state portate avanti.

Perché spesso non riusciamo a dare continuità alle iniziative più interessanti?
Forse perché la realtà è piuttosto disgregata, anche a causa della vocazione turistica della città, che comporta uno sguardo più rivolto al passato.
In realtà Firenze ha istituzioni molto originali come Tempo Reale, o l’Accademia del gesto di Virgilio Sieni, altro personaggio che conosco bene ed è importantissimo nel settore della danza.
Penso che Firenze dovrebbe valorizzare maggiormente la creatività contemporanea.

Forse anche il pubblico non è abbastanza curioso
La tendenza è un po’ quella dei pubblici specializzati, e anche i programmi sono fatti in maniera un po’ standardizzata.
Per quanto riguarda i concerti, anni fa si assisteva ad operazioni forse più coraggiose. Ricordo un trio tedesco che eseguì a Palazzo Vecchio un programma tradizionale, ponendovi al centro Plus-minus di Stockhausen, un pezzo molto particolare, con partitura indeterminata: ad un certo punto uno degli esecutori si mise a soffiare bolle di sapone, e uno spettatore uscì indignato dalla sala. Anche l’indignazione, molto più frequente all’epoca, era in fondo un segno di vitalità da parte del pubblico.

Sarebbe auspicabile una maggiore osmosi tra passato e presente, e tra vari ambiti artistici
Giustissimo, l’osmosi è essenziale per creare nuove connessioni. Il Festival di Tempo Reale, ad esempio, attira non solo gli appassionati di musica elettronica ma anche altri giovani curiosi, e questo ci mostra come i tentativi di allargare gli spazi siano da incrementare, mentre i compartimenti stagni tendono a far replicare le abitudini di ascolto che, per quanto rassicuranti, rischiano di favorire l’implosione.
A proposito dei collegamenti fra settori, penso che proprio un corso come il Triennio di musica applicata, prevedendo l’interazione con altri media, possa essere un’opportunità per avvicinare ambiti diversi e permettere ai ragazzi di scambiare esperienze.
Una volta messo in moto il meccanismo sarà utile stabilire legami con l’Accademia delle Belle Arti e con scuole di cinema (anche con distaccamenti di università straniere a Firenze che hanno corsi specifici per il settore cinematografico) non solo per collaborazioni utili a livello didattico, ma per favorire l’incontro tra le diverse creatività.
E tra qualche anno potremo vederne i frutti…

Fiesole, 5 marzo 2021

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