Significativo traguardo per l’ensemble corale, che festeggia nel 2018 i trent’anni di attività.
Abbiamo incontrato Fabio Lombardo, artefice e responsabile del progetto didattico che, con immutato entusiasmo e grande serietà professionale, porta avanti dal 1987 presso la Scuola. Dalla sua terrazza sui tetti delle Cure la collina fiesolana sembra una cartolina illustrata, e la conversazione è così interessante che il tempo vola.
Trent’anni fa nasceva la Schola Cantorum Francesco Landini…vuoi raccontarci come fu l’inizio?
Ricevetti una chiamata di Piero Farulli nel giugno 1986: “Devo parlarle, dobbiamo incontrarci!” mi disse col consueto tono che non ammetteva dinieghi.
Fu un incontro in cui si chiarì subito in che modo ci saremmo relazionati successivamente: il Maestro mi disse che intendeva creare un coro, ed io risposi che ce n’era già uno (allora si chiamava Coro della Scuola di Musica di Fiesole e, staccandosi dalla Scuola, sarebbe divenuto Harmonia Cantata); lui replicò che il coro esistente stava prendendo un formato da camera e che voleva crearne un altro più grande, aperto a tutti, per il quale aveva bisogno di un “trascinatore di folle”.
Risposi che in quel caso me ne sarei andato subito, perché non ero certo la persona adatta, e lui insistette dicendo che voleva proprio me ne occupassi io, e che il nuovo coro avrebbe dovuto preparare la Nona Sinfonia di Beethoven, al che risposi che non era cosa adatta ad un coro amatoriale… insomma, questo primo contatto fu davvero interlocutorio e problematico, ma alla fine Piero Farulli mi chiese di preparare un progetto che poco dopo consegnai, e del quale per un po’ non seppi nulla.
Era trascorso quasi un anno (e già avevo abbandonato l’idea di questa iniziativa), quando fui contattato e scoprii che il coro si sarebbe fatto davvero: mi si chiedeva di trovare giorni, luoghi e modalità per il nuovo progetto. Così fu preparato un bando, ed alla prima riunione del nuovo coro, nel novembre 1987, c’erano ben 120 persone, al Salone del Brunelleschi dell’Istituto degli Innocenti. Le lezioni si sarebbero tenute nella sala che era allora la ludoteca dell’Istituto. Così facemmo 120 audizioni e creammo due gruppi, la Schola Cantorum vera e propria e un Laboratorio corale.
Il nuovo ensemble era una schola cantorum nel senso etimologico, non in quello storico di coro ecclesiastico e non casualmente scegliemmo di intitolarlo a Francesco Landini, grande figura di artista e intellettuale fiorentino e fiesolano del XIV secolo, tempi in cui musica e cultura andavano, forse, più insieme.
Come si strutturava l’attività nei primi tempi?
Da subito avevo voluto creare un’equipe di lavoro, ed il primo pilastro dell’attività fu la pianista Silvia Da Boit, che in quell’occasione entrò a far parte della Scuola; in origine prevedemmo che ci fosse un vocalista per ogni sezione, e iniziammo con Massimo Sardi e Johanna Knauf.
Piero Farulli aveva espresso il desiderio che questo coro si dedicasse al repertorio con orchestra, perciò partimmo subito con la Missa brevis K.192 di Mozart, con cui debuttammo alla Limonaia nel giugno ‘88; il primo appuntamento esterno fu nell’aprile ‘89 in occasione di un matrimonio della famiglia Rimbotti, e in giugno fummo ospiti dell’Estate Fiesolana.
Quando ripenso ai primi anni di attività del coro, ancora mi sorprendo della grande fiducia che Piero Farulli mi diede: ero un giovane sconosciuto. Gli sono molto grato per questo.
Quali differenze con la situazione attuale, relativamente ad esempio al reclutamento dei coristi e alla loro preparazione individuale?
In quegli anni a Firenze non c’erano molte attività corali, così i cantori che presero parte alle prime annate della Schola Cantorum avevano già una certa esperienza, dimostrata insieme alle buone attitudini fin dalle audizioni d’ingresso.
Nel corso degli anni le cose sono cambiate perché, grazie ad una proliferazione di attività corali, a Firenze il panorama è divenuto più vivace ed affollato; nel frattempo, purtroppo, la Schola Cantorum non si è abbastanza radicata nel tessuto didattico della Scuola. Mi spiego: chi frequenta i corsi strumentali della Scuola non frequenta il coro, mentre il 90% dei coristi viene a Fiesole solo per le nostre attività, che per molti includono fortunatamente anche lo studio individuale del canto nel dipartimento di vocalità.
Questa non positiva situazione è stata parzialmente corretta dall’introduzione del Triennio, e dico “parzialmente” perché chi frequenta il Triennio strumentale è tenuto a partecipare all’attività corale, ma in modo piuttosto ridotto. Non si riesce a far passare la nozione dell’importanza della formazione corale per gli strumentisti, e sulle motivazioni di questa carenza ho una mia idea: in certe regioni italiane (Veneto, Trentino) c’è una tradizione corale molto radicata e talmente diffusa che è molto probabile che uno strumentista abbia fatto fin da piccolo una buona attività corale. In Toscana non è così, e l’attività corale non appartiene quindi al bagaglio delle esperienze della stragrande maggioranza dei musicisti, tra cui anche gli insegnanti.
E perché un insegnante dovrebbe consigliare ai propri allievi una cosa che non ha fatto e che ritiene magari inutile?
L’altro aspetto è la famosa parola “amatoriale”, che ha una connotazione negativa e talvolta addirittura spregiativa nel quasi sinonimo “dilettante”; questo è un vulnus nella cultura musicale italiana. L’idea che il coro sia formato da amatori allontana i giovani musicisti che si stanno formando con un intento “professionale”.
Questo senza che ci si renda conto di due aspetti molto importanti nella formazione di un musicista. Il primo: l’amatore può avere una capacità anche superiore a quella di un musicista, almeno per quel che riguarda le qualità vocali, e spesso sa cogliere della musica alcuni aspetti che noi non riusciamo più a gustare, presi come siamo dalla specializzazione della nostra professionalità.
Il secondo: conoscere gli amatori è importantissimo! Se la musica fosse solo per musicisti non esisteremmo, quindi incontrare l’amatore è entrare in contatto con una delle tantissime tipologie di appassionati, che vivono la musica facendola in prima persona, ma anche ascoltando i concerti, acquistando i dischi, e considerando l’esperienza della musica una grande, imperdibile gioia della vita.
Chi è oggi il corista-tipo?
Il corista-tipo è… di tanti tipi! Nella Schola Cantorum convivono più generazioni, si trovano persone dai 20 ai 70 anni; già questa è una cosa splendida. Quale altra attività può vedere la collaborazione paritaria di tante generazioni diverse?
C’è la persona adulta che ha una grossa passione, e che grazie al coro fa musica in modo significativo. Poi ci sono i giovani che stanno avviandosi al canto, e come dicevamo sono inseriti nel dipartimento di vocalità, nel percorso preaccademico e nel Triennio. Infine gli strumentisti che frequentano l’attività corale come parte del loro piano di studi per il Triennio.
Nel corso di questi trent’anni l’organico del coro ha oscillato numericamente tra 35 e 70 elementi; sono passate dalla Schola Cantorum circa 350 persone, con annate qualitativamente migliori e altre meno entusiasmanti.
La stragrande maggioranza dei coristi è italiana, ma negli anni hanno partecipato anche persone provenienti da Albania, Armenia, Austria, Belgio, Canada, Cina, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Iran, Israele, Messico, Moldavia, Olanda, Polonia, Russia, Spagna, Turchia, Stati Uniti.
Mi fa piacere dire che sono ancora con noi due o tre coristi del primissimo gruppo del 1987!
L’attuale team dei docenti?
Quando Silvia Da Boit ha dovuto lasciare, c’è stato per un periodo Riccardo Foti e poi è arrivato l’attuale maestro collaboratore, che è Paolo Gonnelli. Il ruolo di vocalista è oggi ricoperto da Lucia Mazzei, che ha fatto parte della prima Schola Cantorum e ha studiato con Massimo Sardi: nel suo caso la passione si è trasformata in una seria preparazione professionale.
Nel coro confluiscono anche i contributi degli insegnanti di canto, che spesso curano individualmente gli allievi scelti per le parti solistiche.
Negli anni sono emerse dal gruppo individualità interessanti?
Moltissimi, tra coloro che hanno anche studiato canto individualmente, hanno successivamente svolto attività musicali professionali. Tra loro il soprano Seren Akyoldaş, il tenore e compositore Giovanni Biswas, il mezzosoprano Julia Halfar, il direttore d’orchestra Nima Kershavarzi, Mika Kosaka (soprano e membro del Tokyo Philharmonic Chorus), il soprano Paola Leggeri, il compositore Tiziano Manca, il baritono Gianluca Margheri, il soprano Elena Mariani, la già citata Lucia Mazzei, Nicola Patrussi, splendido oboista e per un certo tempo tenore, la pianista Valentina Peleggi, direttore di coro e d’orchestra (adesso con l’Orchestra di San Paolo in Brasile). Sicuramente avrò dimenticato qualcuno, e me ne scuso…
Come si concilia nel tuo lavoro il rigoroso professionismo (ad esempio ne L’Homme Armé) con la cura di una compagine formata essenzialmente da amatori?
Bella domanda! Alla luce del già definito concetto di amatorialità, che implica il fatto che i professionisti la considerino una cosa bassa, molti colleghi pensano che, lavorando con gli amatori, sia anch’io un amatore. Faccio questo lavoro da moltissimi anni e mi rendo conto che questa è una delle confusioni che si tende spesso a fare sul direttore di coro (figura ancora sconosciuta nella vita musicale del nostro Paese).
Fare questo mestiere richiede attitudini e competenze specifiche e delicate, sia sul fronte professionale sia su quello amatoriale: considero le due tipologie d’insegnamento una componente importantissima del mio essere musicista.
Negli ultimi trent’anni è successo periodicamente che qualche grande della musica italiana lanciasse un grido di dolore sulla situazione della musica e dell’educazione musicale italiana. Credo che sia un segno degli equivoci esistenti sull’insegnamento musicale: da una parte si ritiene che chiunque può insegnare musica, dall’altra ci si lamenta perché si pensa che solo grandi personalità musicali potrebbero cambiare le cose. Nel mezzo c’è la situazione attuale, a macchia di leopardo: esperienze molto importanti e formative che contribuiscono a costruire la cultura musicale del nostro paese, in mezzo ad una situazione per lo più caotica, soprattutto per l’incapacità di saperla indirizzare e governare.
Ritornando alla tua domanda, credo che per fare questo mestiere sia necessario avere competenze, attitudini e … desiderio.
Credo che questo aspetto sia un’altra delle carenze nella cultura musicale italiana: così come molti musicisti pensano che basti saper suonare per insegnare, si pensa che basti saper un po’ di musica per dirigere un coro. Insegno direzione di coro in Conservatorio da diverso tempo, e so che purtroppo non è ancora del tutto chiaro che, se c’è un coro da dirigere, bisogna cercare qualcuno che abbia quella specifica professionalità.
Oggi mi rendo conto che anch’io, all’inizio, non sapevo tantissime cose, perché nessuno me le aveva insegnate. Ho studiato con una generazione di maestri che come direttori di coro erano autodidatti. Fino agli anni ’80 non esistevano infatti scuole di direzione di coro, ed il vecchio diploma di Musica corale e direzione di coro era stato inventato solo allo scopo di creare le figure che avrebbero insegnato musica nell’istituto magistrale.
Dirigere un coro amatoriale è un lavoro molto impegnativo, che richiede la capacità di escogitare soluzioni efficaci a risolvere problemi spesso complessi; in certi momenti può essere anche un po’ scoraggiante, ma per quanto mi riguarda, se fin dall’inizio ho svolto quest’attività con grande energia e passione, adesso penso di essere riuscito ad aggiungervi la capacità di elaborare le soluzioni a molti dei problemi che si presentano.
Ma queste cose si possono insegnare?
Si possono insegnare, ma il problema è che ormai le scuole sono tutte organizzate col modello della riforma AFAM, così le ore sono contingentate, e i nuovi corsi rischiano di buttar via il bambino con l’acqua sporca, cancellando qualcosa della vecchia “bottega” didattica artigianale, che aveva alcuni aspetti molto funzionali. Spesso gli studenti del Triennio e Biennio di direzione corale sono strumentisti (principalmente pianisti) sostanzialmente privi di esperienza corale. Negli altri paesi lo studente di direzione di coro ha cantato fin da piccolo in un coro, e quindi ha accumulato una certa esperienza corale. In Italia lo studente non ha molte ore a disposizione per far pratica, e il sistema della riforma in questo senso ha peggiorato le cose, introducendo una griglia oraria rigida che costringe a frequentare moltissimi insegnamenti che rischiano di disintegrare l’esperienza formativa. Spero che sia solo una fase di transizione, ma al momento non sono particolarmente ottimista.
E quando davanti a te ci sono i professionisti? Ti spogli di qualcosa e ti rivesti di qualcos’altro?
No, focalizzo l’attenzione su altri aspetti, puntando su obiettivi diversi. C’è però una cosa che cerco di mantenere: il piacere di fare musica, che a volte in ambiti professionali tende a sfuggire. Mantengo alta l’attenzione a far sì che, mentre facciamo cose complesse, rimangano il piacere di farle e la comunicazione fra le persone, e si crei un’atmosfera che agevoli questo piacere. Questo è in comune col lavoro alla Schola Cantorum: non posso stressare gli amatori che vengono dopo una giornata dura, quindi la cosa principale è ritrovare il piacere del far musica insieme e far circolare la comunicazione, non solo fra le voci, ma fra le persone. Non sempre è facile, ma cerco di non dimenticarlo mai.
Quali sono stati i momenti più intensi e importanti nella vita del coro?
Uno dei progetti più impegnativi, più volte messo in programma e sempre con entusiasmo di tutti è stato il Messiah di Haendel, anche grazie alla grande professionalità di Nicola Paszkowski, il direttore d’orchestra che ha lavorato di più con il coro e con i risultati migliori. Certamente l’esperienza del Weihnachtsoratorium di Bach è stata un altro momento molto bello, così come la musica di Britten, per citare i grandi nomi. Anche la breve esperienza con la musica di Lili Boulanger ci ha arricchito parecchio.
Particolarmente impegnativo il concerto con Vinko Globokar, che facemmo a Saarbrücken, spingendo ai limiti le possibilità della Schola Cantorum. Fu la prima esperienza col repertorio contemporaneo e fu necessario un percorso di avvicinamento dei coristi a questo mondo per loro molto lontano.
Ma devo dire che forse alcuni dei momenti più belli sono stati anche in prova: a volte si crea una sintonia straordinaria.
Quali programmi, per l’anno in corso?
Il prossimo progetto è il Concerto di Pasqua, in cui faremo un programma di nuovo tutto contemporaneo, per coro e quintetto di sax, ideato insieme ad Alda Delle Lucche. Riprendiamo tra l’altro un pezzo bellissimo come Amao omi (guerra senza senso) del compositore georgiano Giya Kancheli, che affronteremo per la seconda volta e quindi senz’altro con maggiore consapevolezza.
E per il futuro?
Trent’anni non sono un traguardo da poco per una compagine musicale, tanto più in un’epoca di cambiamenti come la nostra. Ci sono diversi progetti musicali nel cassetto. Ma ogni volta che iniziamo un nuovo programma è come iniziare un nuovo viaggio insieme. Spero che i “viaggiatori”, attuali e futuri, abbiano sempre la passione, la curiosità, l’entusiasmo e l’umiltà per affrontare le nuove avventure.
E, possibilmente, che tutta la Scuola sia contagiata al più presto da una benefica epidemia corale!