Ricordi ed emozioni convivono nella poetica e autoironica autobiografia dello scrittore fiorentino Enzo Fileno Carabba, che ad un certo punto della narrazione incrocia le vie della Scuola: La zia subacquea ed altri abissi famigliari (Mondadori, 2015)
contiene alcune pagine in cui si racconta dell’incontro con Piero Farulli, delle lezioni di strumento e di composizione, delle esperienze di un ragazzo sensibile e curioso che, salito a S. Domenico in bicicletta, si innamorò della Scuola e la abitò per qualche anno come un castello incantato.
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Siamo andati ad intervistarlo, ed ecco come si è svolta la nostra conversazione
Da dove cominciamo?
Da ragazzo studiavo il pianoforte e mi venne l’idea di fare il compositore… un’idea fantastica. Anche se non sapevo esattamente cosa fosse un compositore.
Perché il pianoforte?
Il pianoforte era lì prima di me, un bel Pleyel della bisnonna; la linea musicale proseguiva con mio nonno, che lo suonava ad orecchio. Alla fine delle scuole elementari pensai di cominciare anch’io a suonare. I miei erano scettici. “Suona la chitarra”, mi suggeriva mio padre, “che con le ragazze funziona meglio! La chitarra puoi portarla sulla spiaggia”. Io però preferisco lo scoglio e mi dedicai al pianoforte.
Dopo un periodo di lezioni private col maestro Caglieri trovai naturale, dato che abitavo al Salviatino, ai piedi della collina di Fiesole, salire in bicicletta alla Scuola, dove incontrai subito Piero Farulli. Aveva uno sguardo fiammeggiante, leonino. Come tutti i grandi felini, oltre a possedere una notevole forza te ne trasmetteva una parte. Mi spiegò che il pianoforte era uno strumento per letterati solitari mentre la musica è fatta per stare insieme. Mi suggerì –autorevolmente– di suonare anche il corno.
Perfettamente in linea con la sua filosofia…
Ebbi un’impressione di generosità. Negli anni ho scoperto che a tante persone Farulli ha fatto questo effetto, ad ognuno ha detto una frase memorabile, breve ed incisiva, che queste persone si sono portate dietro come un talismano. Ci sono frasi che conservano un potere.
Però a quel punto bisognava mettersi al lavoro…
Studiavo pianoforte con Dorina Nencetti e corno con Amilcare Cipriani. Lezioni di storia della musica di Daniele Spini. Quando ne parlava lui, riuscivo perfino ad apprezzare Wagner. In generale, i miei risultati non furono vistosi, ma l’emozione fu grande. D’altra parte, per essere all’altezza della presentazione che Farulli aveva fatto di me agli insegnanti, avrei dovuto essere un altro. Come racconto nel libro, al primo incontro suonai per il Maestro una Invenzione a due voci di Bach. Nella telefonata che fece subito alla mia futura insegnante Farulli mi presentò come un conoscitore profondo di tutte le Invenzioni a due voci. Durante la prima lezione dovetti ridimensionare il mio personaggio. Lo stesso col maestro di corno, al quale Farulli disse che conoscevo perfettamente -come ascoltatore- i Concerti per corno di Mozart, inducendomi ad ascoltarli di continuo per giorni, prima di incontrare il maestro. Per cui si può dire che l’immaginazione di Farulli incise sulla realtà, dato che alla fine li conoscevo davvero.
Da come ne scrivi, è chiaro che la Scuola fu per te un luogo felice
Proprio così. Un’immersione nella musica. Dopo pochi anni, obbedendo a una legge naturale vecchissima, iniziarono i turbamenti giovanili. Andare tutte le mattina al liceo mi infastidiva profondamente: certo per colpa mia. Comunque venire a Fiesole continuava a piacermi, perché era come un altro mondo, più accogliente. Nel mio ricordo galleggia l’immagine della Torraccia che si svuotava, verso sera (c’era solo il custode Vincenzo). Passavo da una stanza all’altra e mettevo le zampe sui vari pianoforti, senza incontrare quasi nessuno. Dalle finestre entravano il paesaggio e l’oscurità. Salivo all’aula Torre. Nella piena solitudine (Farulli dunque aveva ragione!) il luogo era affascinante e misterioso, come in un film dell’orrore, ma senza la paura. Pensavo che potessero esserci i fantasmi, ma erano gente a posto. Non sono più stato in quell’aula, e mi piacerebbe tornarci.
E il tuo progetto di fare il compositore?
Cominciai a frequentare le lezioni di Sylvano Bussotti. A volte si parlava poco di musica, però le narrazioni erano avvincenti. Anche gli allievi erano particolari. Quando, alla prima lezione mi presentai con un quaderno e feci per prendere appunti, suscitai sguardi di commiserazione. Avevo già sentito grandi parlatori (ero abituato ai salti logici di mia nonna), ma nelle parole di Bussotti c’era uno scintillio. I suoi racconti labirintici mi ricordavano -in meglio- i discorsi di Osho, ed erano di grande fascino. Qualche volta la lezione poteva consistere anche solo nel guardarlo comporre: tracciava arabeschi e sembrava di essere a teatro.
Collegavo la presenza di una simile personalità ad un disegno di Piero Farulli, che come uno stratega aveva attratto nell’orbita della Scuola, grazie al suo carisma, individualità di assoluto rilievo, anche molto diverse da lui.
Forse però non erano le lezioni più adatte ad un ragazzino…
Infatti, e questa era la parte migliore della faccenda. Gli altri allievi erano più grandi e già musicalmente formati. Dei musicisti, effettivamente. Mi pare (i miei ricordi hanno lacune enormi) che Farulli stesso mi avesse mandato lì, e gliene sono grato. Non capire può essere bello. Nello stesso periodo sentivo un’attrazione irrazionale nei confronti della scienza. Provavo a leggere libri di astrofisica, per esempio. Non capivo niente. Ma quello che conta è l’atmosfera dell’universo, non è che possiamo stare sempre a guardare il dettaglio. E così per quelle lezioni: mi piaceva l’atmosfera. Del resto, quell’atmosfera non l’ho più ritrovata.
Non c’era mai insofferenza, da parte degli allievi?
Nei confronti di un ragazzino che capiva poco ma apprezzava l’atmosfera? No. Le persone che ho incontrato in quel periodo alla Scuola (primo fra tutti Farulli) trasmettevano la sensazione che quello che facciamo, piccolo o grande che sia, è importante. Questa sensazione (che definirei fisica) è un regalo prezioso, che dura nel tempo.
Racconta…
Ricordo un concerto alla Limonaia: suonarono pezzi scritti da allievi e fu incluso anche un mio piccolo pezzo per pianoforte, eseguito dal pianista Mauro Castellano. Spesso negli ambienti specialistici il dilettante e l’apprendista sono irrisi; lo so perché sono un appassionato raccoglitore di preziosi reperti inutili, che trovo durante le mie passeggiate subacquee e campestri. Mi è capitato di incontrare archeologi gentili, che mi danno un parere sugli oggetti che ho raccolto, ma succede anche di essere immediatamente fermati dal rifiuto sdegnoso di occuparsi delle richieste di un dilettante. Questo nella classe di Sylvano Bussotti non esisteva: nessuno rideva, lì, venivamo presi sul serio. La linea dominante era legata alla cosiddetta musica d’avanguardia, che tendo a non ascoltare ma di cui ammiravo il coraggio.
Quale musica preferisci?
Come aspirante compositore avevo scritto delle musiche infantili, che però non ho mai osato mostrare al Maestro, anche perché nella classe di composizione tutti erano adulti e seri. A quel tempo, tra le persone che frequentavo, canticchiare e muovere la testa al ritmo della musica era considerato disdicevole. A me in realtà piace canticchiare e muovere la testa. Di tutta questa invenzione della musica, è uno degli aspetti che preferisco. Questo avrebbe dovuto dirmi qualcosa.
In ogni caso da questa esperienza di giovane compositore è derivata quella di scrittore per la musica?
Sì, cominciai a scrivere parole legate alla musica, cose brevi che ipotizzavo qualcuno potesse cantare. Poi scrissi un libretto per Bussotti, e fu interessante perché per la prima volta si trattava di una storia: avvenimenti che devono far rima tra loro.
All’epoca non pensavo di essere davvero interessato alle storie, scrivevo in versi. Dopo aver scritto questo libretto cominciai invece a pensare alle storie. Il libretto divenne un’opera, col titolo Intégrale Sade, e qualcuno mi suggerì di partecipare al Premio Calvino nella sezione libretti. Era il 1990.
E lo facesti?
Sì, ma nel frattempo la lettura, in una stessa estate, di Gargantua e Pantagruel di Rabelais e di Viaggio al termine della notte di Céline aveva acceso in me un nuovo amore per le storie, non veri e propri romanzi serrati, ma storie debordanti, oceani di episodi, come Don Chisciotte, che mi entusiasmavano. Avevo scritto Jakob Pesciolini, che mi sembrò potesse rientrare nella tipologia del romanzo: lo spedii insieme al libretto e… vinse il Premio.
Avevi solo 24 anni
Ebbi fortuna con la giuria. Presidente era Vincenzo Consolo, un romanziere tendente al canto e al poema. Entrai in contatto con case editrici importanti, che prima non avevo preso in considerazione pensando che loro non avrebbero preso in considerazione me. In Jakob Pesciolini c’erano delle note a piè di pagina in cui la storia si diramava per altre vie. Avevo notato che nei libri che mi piacevano c’erano ampie digressioni, che alla prima lettura mi capitava di saltare, ma che magari andavo a rileggere dopo. Allora, pensai, ci sono diverse velocità della mente: una che vuole andare avanti velocemente, l’altra che si ferma o torna indietro ad osservare meglio. Volevo farlo anche io! Lego quest’idea all’esperienza della composizione musicale. Erano come variazioni. L’editore eliminò le mie diramazioni in nota, sostenendo che non sarebbero state lette neanche da mia sorella. Non fui in grado di smentirlo perché non ho una sorella.
Una volta iniziata l’attività di scrittore hai continuato a suonare?
Ad un certo punto io e la Scuola ci siamo persi di vista. Ma dentro di me è rimasta una di quelle stanze in cui vagavo la sera. Mi piace improvvisare al pianoforte, per anni ho solo improvvisato, sul Pleyel ottocentesco della bisnonna e su un pianoforte più moderno che era nella casa dei miei genitori. Quando sono venuto ad abitare qui a Impruneta ho riunito i due pianoforti, che finalmente si sono incontrati. Ma riesco a suonare solo quasi il Pleyel. Ha un suono meno potente, ma lo preferisco. Mi sembra di controllarlo meglio. È come un cavallo che mi conosce e mi asseconda.
Hai dedicato alcuni capitoli del libro a questo strumento
Ha una storia particolare, legata alla presenza dei fantasmi… Tutti episodi dimostrati scientificamente o quasi. Oltre al pianoforte ho ritrovato di recente alcuni spartiti della bisnonna, che possedeva riduzioni pianistiche delle opere, delle sinfonie e dei quartetti che all’epoca si suonavano in casa. Ho trovato un pezzo di musica scritto da lei, ed alcune novelle; ha anche raccontato la storia del passaggio del fronte da Siena durante la Seconda Guerra Mondiale adottando il punto di vista di mio zio, che a quel tempo era un bambino piccolo.
Un’artista anche lei, allora
Una donna notevole, come anche il mio bisnonno, che prima di incontrarla era fuggito con un circo per seguire un’acrobata di cui si era innamorato. La storia sembra inventata. Ma mia nonna giurava che è vera. Il bisnonno acrobatico fu recuperato dal padre, che lo riportò a Siena, dove conobbe la bisnonna e partecipò in seguito alla costituzione dell’Accademia Chigiana, di cui fu per molti anni segretario. Insomma, la musica, per un verso o per l’altro, è una parte importante nella mia tradizione familiare. Col circo invece abbiamo tagliato i ponti.
Tornando all’attualità… ti sei riavvicinato a Fiesole attraverso la Casa della Musica di Arezzo, dove si è tenuto l’anno scorso uno spettacolo di musica e parole tratto dalla tua fiaba noir “Con un poco di zucchero”, con i sax di Alda Dalle Lucche e la voce di Maria Cassi
Alda Dalle Lucche è posseduta dalla musica, che la spinge incessantemente verso nuovi orizzonti. Maria Cassi è una grande attrice che può trasformarsi in qualsiasi cosa muovendo un sopracciglio o roteando il naso. Con Alda stiamo lavorando a un nuovo progetto per la Casa della Musica ad Arezzo.
E sei tornato anche come genitore…
Sì. C’è chi sostiene che la vita non è una retta ma una rete e che possiamo (spesso) tornare in punti che ci piacciono. Uno dei miei quattro figli, Pietro, frequenta il corso di violoncello con Elettra Gallini. Ho ritrovato una Scuola affollata, con bambini e ragazzi ben più numerosi di allora. Da una parte l’individuo solitario che Farulli aveva acutamente visto in me rimpiange la rarefazione umana di un tempo. Dall’altra, però, quando arrivo e sento suoni uscire da tutte le parti mi sembra che sia una manifestazione della presenza di Farulli, al quale sono grato per tutto quello che mi ha dato tanti anni fa, anche se non gliel’ho mai detto.
Come si era conclusa la tua esperienza di studente a Fiesole?
Come ho scritto, quando decisi di smettere di suonare, Piero Farulli mi fece notare che ero un bischero, e lo vedo ancora inseguirmi nel corridoio del primo piano con le sopracciglia inarcate e col corno in mano, come per tirarmelo in testa. Penso fosse un gesto simbolico, ma per prudenza mi defilai. In ogni caso la scena mi piacque immensamente, perché mi dette un altro segno del suo interesse nei miei confronti. Non era uomo che lasciava andare via con indifferenza le pecorelle smarrite, e neanche un pecorone quale probabilmente ero io ai suoi occhi. Mi piace tornare su questa capacità di considerare tutto importante, perché ha a che fare con l’ambizione e al tempo stesso con l’umiltà. Credo che anche grazie a questo atteggiamento Piero Farulli sia riuscito a creare a Fiesole qualcosa di unico in Italia.
Il tuo affetto per la Scuola è vivissimo, nel libro, anche attraverso il ricordo di tanti dettagli del luogo – penso ad esempio alla grande magnolia su cui racconti di esserti arrampicato (come fanno da sempre i bambini che vengono a Fiesole)
Farulli a volte mi salutava mentre ero appollaiato là sopra. La possibilità di salire su quell’albero senza essere rimproverato (ero grandino) faceva parte della sensazione di libertà che dava la Scuola. Sono grato anche alla magnolia. Una pianta accogliente, capace di ascolto. Chissà come conosce bene la musica, dopo tutti questi anni. E poi c’era il giardino all’italiana, a quel tempo era sempre chiuso.
Lo è anche adesso…
Sì ma poco tempo fa, la sera, non c’era nessuno. Il cancello era aperto di fronte a me. Non so perché. Qualche fantasma musicale, sicuramente. Mi sono accorto che era una vita che aspettavo. Allora, piano piano, sono entrato.