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Intervista a Matteo Fossi

La Scuola di Matteo Fossi è stata quella di Piero Farulli, dove è nato e cresciuto suonando con gli altri e compiendo fondamentali esperienze, ed è quella di oggi, dove insegna musica da camera, tecniche di lettura estemporanea e duo pianistico, oltre ad essere coordinatore e referente dei corsi di biennio e triennio AFAM e coordinatore del Dipartimento musica da camera.
Grazie ad una formazione completa e culturalmente agguerrita, ai tanti incontri felici dentro e fuori dalla Scuola, ma anche al suo talento e ad una spiccata curiosità intellettuale, Matteo ha raggiunto importanti traguardi nell’attività concertistica e discografica, distinguendosi per scelte originali ed interessanti.

Il nostro incontro online ha toccato molti punti, ma è stata soprattutto l’esperienza fiesolana, prima come allievo e oggi come docente e musicista, ad essere al centro della nostra conversazione.

Come sei arrivato alla Scuola?
Sono nato a Firenze, ma ho trascorso i primi 5 anni della mia vita in Liguria, a Tellaro, dove la mia famiglia si era trasferita per motivi legati al lavoro (mio padre è un astrofisico -anche se poi nella vita ha fatto tutt’altro… – e mia madre un’insegnante di matematica e fisica alle superiori).
Eravamo da poco rientrati a Firenze, dove avrei iniziato a frequentare le scuole elementari, quando mia zia – storica dell’arte appassionata di musica, come mio padre – suggerì l’iscrizione alla Scuola di Musica di Fiesole. Frequentai per un anno i corsi propedeutici e nel 1986 entrai nella classe di pianoforte di Tiziano Mealli che, con molta dedizione e generosità, iniziò mostrandomi la posizione sulla tastiera del do centrale accompagnandomi poi fino al diploma!

Avevi scelto tu il pianoforte?
Sì, avevo un po’ di confidenza con la tastiera fin dai giochi infantili con un piccolissimo pianoforte simile a quello di Schroeder dei Peanuts, e poco dopo con una tastiera; ricordo che all’ammissione “osai” suonare qualcosa davanti alla commissione, ovviamente ad orecchio.

La tua infanzia a Fiesole è stata piuttosto impegnata
A nove, dieci anni ho iniziato a suonare con gli altri: Piero Farulli chiese al mio maestro se avesse un ragazzino da far suonare con il suo allievo Edoardo Rosadini, e così, un sabato pomeriggio, seppi che il lunedì successivo avrei avuto la mia prima lezione di musica da camera, proprio con il Maestro. Lo shock fu immediato: si trattò di una vera e propria lezione, la prima di una lunghissima serie di appuntamenti settimanali insieme ad Edoardo, che inizialmente suonava il violino e poi passò alla viola e al relativo, differente repertorio.
L’anno successivo cominciai a suonare anche con Lorenza Borrani, sotto l’ala protettiva della sua insegnante Alina Company e di Tiziano Mealli, e così siamo cresciuti tutti insieme.

Esisteva già a Scuola una classe di musica da camera di base?
Gli appuntamenti con Piero Farulli erano a tutti gli effetti lezioni di musica da camera, perché le indicazioni erano sempre per tutti e due gli allievi, ma la mia prima vera e propria insegnante di musica da camera a Fiesole fu Giovanna Prestia, con la quale facevo trio con flauto e violino. Qualche anno dopo fu incaricato Riccardo Cecchetti, nella cui classe nacque nel 1995 il Quartetto Klimt, giunto nel 2020 ai 25 anni di attività!

Ne ha parlato con emozione anche Edoardo Rosadini…
Un’opportunità fantastica, quella di costituire un gruppo tra giovanissimi compagni di scuola e fare insieme esperienze fondamentali. A partire dalla frequenza del corso di perfezionamento di musica da camera, che all’epoca era tenuto a Scuola dal Trio di Milano formato da Mariana Sirbu, Rocco Filippini e Bruno Canino, che ad ogni stage facevano lezione separatamente a tutti i gruppi.

Il tuo perfezionamento pianistico è stato invece nella classe di Maria Tipo
Proprio così: ero entrato in contatto con lei molto presto, attraverso Lorenza (Alina Company è la figlia di Maria Tipo n.d.r.); una settimana dopo il mio esame di diploma mi sono presentato alle ammissioni del suo corso di perfezionamento, in cui i posti disponibili erano sempre pochissimi a fronte di un gran numero di domande. È stata un’esperienza molto formativa ed impegnativa, sia con lei che con Pietro De Maria, all’epoca suo assistente, ma lo spazio per il repertorio solistico in quel momento non era molto, anche perché la mia attività concertistica nella musica da camera era già piuttosto intensa.

Ad un certo punto hai lasciato la Scuola
Sì, una volta concluso il perfezionamento con Maria Tipo ho iniziato a seguire le lezioni di Pier Narciso Masi, dal quale mi facevo ascoltare anche per il repertorio cameristico. Masi è stata un’altra figura fondamentale nel mio percorso di crescita musicale. Nel frattempo, i miei compagni di studi venivano coinvolti nell’insegnamento alla Scuola, e ricordo di essermi sentito per qualche tempo un po’ “ai margini” delle vicende fiesolane. Ad un certo punto Riccardo Cecchetti mi chiamò per dargli una mano nella sua classe, e qualche tempo dopo Andrea Lucchesini, all’epoca Direttore artistico, mi affidò una nuova classe di musica da camera per i più piccoli. Fu l’inizio del nuovo settore cameristico per l’infanzia, che poi si è sviluppato anche attraverso il sistema delle orchestre infantili, nell’intento di dare un segno chiaro e definito alla centralità della musica d’insieme nell’esperienza dell’apprendimento musicale a Fiesole. Così sono tornato, ed il mio impegno a Scuola è stato sempre più intenso.

Rispetto all’iter consueto per i giovani pianisti di talento, che spesso seguono (o seguivano) la strada della partecipazione ai concorsi, il tuo percorso è stato molto diverso: evidentemente la Scuola ti aveva dato una forma mentis differente
Sicuramente, da tutti i punti di vista. Non soltanto per la grande passione per l’attività cameristica, che poi negli anni mi ha portato a suonare, oltre che con il Klimt, in trio (coi fratelli Ceccanti), in duo pianistico (con Marco Gaggini, da più di dieci anni), e con tanti musicisti in tutto il mondo. Inoltre, dopo il diploma Maria Tipo mi fece capire cosa volesse dire una disciplina ferrea (anche se già gli studi con Tiziano non erano stati certo una passeggiata…), ed anche quale fosse l’impegno necessario per tentare di raggiungere certi obiettivi. Ho dovuto trovare le energie per decidere di dedicare la vita alla musica, ed in quale modo farlo, perché fin lì era stato sostanzialmente un gioco.

Quando hai scelto?
Avevo fatto il liceo classico e dopo mi ero iscritto alla facoltà di Scienze politiche (mi sono sempre piaciute la storia e la politica). Avevo iniziato seriamente, ma poi mi resi conto che la vera passione era un’altra; anche se oggi penso che con qualche sacrificio in più sarei potuto arrivare alla laurea, allora non mi sentivo sufficientemente concentrato su tutte e due le cose contemporaneamente, così interruppi gli studi universitari, intorno ai 22 anni. Non ebbi alcun dubbio, anche se i miei genitori espressero più di una riserva… Adesso li capisco: quella che stavo intraprendendo era una strada difficilissima!

Avevi già intrapreso l’attività didattica?
Facevo qualche lezione privata, ma soprattutto ebbi la fortuna di iniziare ad insegnare in conservatorio molto presto: senza nessuna conoscenza dei complicati meccanismi di chiamata, mandai il mio curriculum a vari istituti, e il direttore del Conservatorio di Milano prese in considerazione la mia candidatura nella preparazione delle graduatorie. A 25 anni ebbi così la mia prima classe di musica da camera al Conservatorio di Brescia: mi alzavo alle 4 e andavo a Brescia in macchina, per rientrare la sera a Firenze (una follia, a pensarci oggi!); i miei allievi erano spesso più grandi di me, visto che la classe aveva quasi tutti studenti di Biennio superiore. È stata una prova molto impegnativa, ma posso dire che quando ho cominciato a insegnare ho iniziato… a capirci qualcosa! Impariamo tanto dagli allievi, e le dinamiche dei rapporti sono infinite.
Dall’epoca di Brescia ho fatto “il giro d’Italia” e sono circa 500 gli allievi (compresi naturalmente i fiesolani) che ho avuto in questi anni, insegnando in una decina di conservatori diversi. Due anni fa ho finalmente ottenuto il ruolo e oggi sono molto felice di essere al Conservatorio di Bologna, bellissimo e prestigioso, con il vantaggio non trascurabile di una maggiore vicinanza a Firenze.
Ho sempre insegnato pianoforte principale – tranne il primo anno a Brescia – e sono contento di questa differenziazione dell’attività didattica tra la Scuola ed il conservatorio, perché mi aiuta a separare chiaramente gli ambiti professionali.

La tua esperienza nei conservatori ti ha mostrato differenze sensibili rispetto al percorso fiesolano, oppure nel corso degli anni anche l’istruzione musicale statale ha recepito certe istanze di rinnovamento?
Non ho vissuto in prima persona la realtà dei conservatori prima della riforma dell’AFAM, ma ho visto nei primi anni 2000 un cambiamento epocale, perché la trasformazione in università è stata graduale ma sostanziale. Ad esempio, la musica da camera è diventata una materia importante: prima non lo era, se non grazie alla statura di certi grandi insegnanti come ad esempio Franco Rossi. Sono certo che le idee innovative di Piero Farulli e la loro concretizzazione nell’esperienza della Scuola abbiano dato una spinta importante al cambiamento di mentalità, sia per quanto riguarda la musica da camera sia per l’attività orchestrale, che era praticamente inesistente.
I conservatori hanno imparato tantissimo dalla nostra Scuola, anche se nessuno lo dice apertamente, mentre a Fiesole abbiamo dovuto inquadrare più strettamente il percorso dei nostri allievi, soprattutto dopo il riconoscimento del Triennio AFAM nel 2013.

Ne sei stato investito direttamente
Le famiglie dei nostri studenti avevano bisogno di risposte e le abbiamo fornite, con un lavoro lungo e complesso, che in quegli anni era assolutamente necessario.
Personalmente non ero al corrente della richiesta che la Scuola aveva rivolto al Ministero, e così quando Andrea Lucchesini mi chiese di occuparmi del Triennio c’era molto da fare, ed il mio ruolo fu soprattutto operativo, in contatto quotidiano con la direzione che nel frattempo era chiamata a prendere le decisioni di indirizzo.
La Scuola ha dovuto dotarsi di una struttura organizzativa (che nei conservatori avevo visto essere ben più articolata) ma posso dire che con la determinante collaborazione di Stefania Parigi, responsabile della segreteria didattica, e di tutto lo staff, abbiamo fatto moltissime cose.

Come definiresti la specificità fiesolana, allo stato attuale?
Senz’altro i piani di studio della Scuola ribadiscono la centralità della musica da camera che a Fiesole, a differenza di quanto previsto abitualmente nei conservatori, è presente in tutte le annualità.
In generale credo che la Scuola abbia mantenuto – nonostante le norme imposte dall’appartenenza all’AFAM – l’offerta di un percorso originale e quanto più possibile “personalizzato”, che è una delle sue caratteristiche storiche e vincenti, come so bene avendone beneficiato per primo negli anni della formazione.
Ne parlavo giorni fa con Claudia Bucchini, che fa parte della commissione per il riconoscimento dei crediti formativi: ogni volta che ce ne occupiamo scopriamo che molti degli allievi che si presentano per frequentare il Triennio hanno interessi musicali ben caratterizzati, ed è giusto valorizzarli. Da questo punto di vista ho ritenuto doveroso impegnarmi molto nel ruolo di tutor, perché questa figura è un raccordo fondamentale tra l’allievo e l’istituzione, e a Fiesole rende più semplice la personalizzazione dell’offerta formativa: cosa non banale, se si pensa che gli allievi che frequentano il Triennio sono attualmente circa 130!
Più in generale penso però che, approfittando dell’autonomia didattica prevista dalla riforma per ogni istituzione AFAM, la Scuola debba continuare ad essere “diversa”, senza smarrire lo spirito pionieristico delle origini.

In che modo?
L’esperienza di questi anni ci ha mostrato che il Triennio è affollato di materie, così tanto da impedire agli studenti di applicarsi allo studio dello strumento quanto sarebbe necessario.
Sono convinto che sia fondamentale che ciascuno sappia usare bene la propria “voce” strumentale, anche per poter suonare bene con gli altri. Vorrei che in futuro la Scuola rivedesse i piani di studio, alleggerendo il più possibile il carico di materie per consentire uno studio individuale più approfondito.

Rendendo opzionali alcune materie?
Vorrei che si potesse razionalizzare il percorso, e lavorare con serietà per periodi più brevi e concentrati, magari trovando occasioni per far suonare assieme docenti e allievi (esperienza che con il Quartetto stiamo portando avanti da anni ai corsi estivi del Livorno Music Festival, e che rappresenta per tutti un arricchimento incredibile). I ragazzi devono sapere che la musica si approfondisce per tutta la vita, ma che questo non significa dilungarsi nella lettura di un pezzo per mesi. Dobbiamo insegnare ai nostri allievi a metter su un pezzo importante di musica da camera in tempi brevi, perché di sicuro non avranno mai un anno intero a disposizione, nella loro vita professionale.
Un buon ritmo di lavoro, con due opere importanti studiate nel corso dell’anno, renderebbe addirittura meno “decisivo” l’esame; non è quest’ultimo a qualificare il corso, ma il percorso fatto durante le lezioni.
Credo che il Triennio debba accendere negli studenti l’interesse, ma non possa esaurire tutti gli ambiti di indagine: l’allievo curioso e motivato, una volta acquisiti gli strumenti di lavoro, dovrà essere in grado di approfondire in modo autonomo. Il Biennio, con meno materie, fornirà a chi lo desidera l’occasione per farlo.
Anche la compilazione della tesi, che è richiesta dalle norme ministeriali, è un’operazione difficile: non si tratta di scrivere un tema liceale, ma di stilare un testo scientifico, che non può prescindere dall’acquisizione della capacità di consultare le fonti e di costruire una solida bibliografia. Abbiamo avuto in questi anni delle piacevoli sorprese, ma sinceramente credo che, per il tipo di percorso che l’AFAM rappresenta, sarebbe più importante insegnare ai musicisti di domani come comporre un programma di sala, o come presentare il loro concerto seduti allo strumento… tutte cose che nella professione di oggi sono indispensabili.
Ma soprattutto, insisto, è fondamentale lasciare a tutti il tempo per studiare a fondo lo strumento, altrimenti formeremo musicisti che faranno fatica ad intraprendere un cammino professionale. E per studiare è necessaria tanta concentrazione, che non può che derivare da una sorta di “innamoramento” per lo strumento, una cosa che a me è successa intorno ai 19 anni. Deve essere un’esigenza totalizzante, che ti convince a dedicare tantissimo tempo alla pratica strumentale, e poi diventa amore, diventa vita.

Il 13 gennaio si è sempre festeggiato a Fiesole il compleanno di Piero Farulli, che quest’anno avrebbe 101 anni… hai visto il documentario che gli ha dedicato RAI5?
Piero Farulli è stato forse la persona più importante della mia vita musicale: era una figura di tale potenza che in qualsiasi situazione, non ultima la pandemia che stiamo vivendo, mi capita di chiedermi cosa avrebbe detto lui, cosa avrebbe pensato. Forse, a proposito di questi mesi, direbbe che è stata l’ennesima occasione per prendere atto che non contiamo nulla, come si è visto nella questione della chiusura dei teatri e delle sale da concerto. Una responsabilità che non è solo della classe politica, ma anche dei musicisti, che sono individualisti ed incapaci di fare squadra, se non in rari e delicati momenti…
I ricordi di Piero Farulli sono tantissimi e continuano ad affollare la mia mente, perché il Maestro esprimeva sempre concetti importanti, anche rivolgendosi a dei bambini, nei quali immaginava i futuri musicisti e insegnanti con una lungimiranza direi quasi incomprensibile. Ricordo, ad esempio, quando ci diceva: “Ricordatevi che, per insegnare in Conservatorio, bisogna prendere il treno!!”, frase del tutto oscura allora, ma che mi è stata chiarissima nei tanti anni di pellegrinaggio didattico (tuttora vado ovviamente a Bologna in treno…). Evidentemente voleva insegnarci una delle fondamentali regole della vita di un musicista e docente, che per lavorare deve viaggiare.
Al di là della battuta, ricordo soprattutto i momenti in cui proponeva al nostro ascolto il Quartetto op. 132 di Beethoven, o il Secondo Quartetto di Janáček. Edoardo ed io eravamo due bambini e se lui, studiando uno strumento ad arco, era senz’altro più agevolato nella comprensione, io ricordo di aver ricevuto da quelle esperienze delle vere e proprie – indecifrabili – “scosse elettriche”, che però hanno dato la direzione alla mia vita.
Grazie a Piero Farulli ho iniziato ad ascoltare gli ultimi quartetti di Beethoven a 12 anni, e da pianista non era certo una cosa scontata! Farulli mi ha insegnato da subito a pensare la musica andando oltre il mio strumento, e sono consapevole di aver voluto formare con gli amici il Quartetto Klimt, proprio perché era la mia unica possibilità per arrivare più vicino possibile al quartetto d’archi, a quel magico equilibrio di voci che mi aveva incantato da piccolo.
So di esser stato fortunato, perché ho avuto a Fiesole moltissimi doni musicali, anche rispetto ad altri pianisti che studiavano con me in quegli anni.
Tornando alla tua domanda, ho visto il documentario di RAI5 con commozione, e ho come tutti constatato la sconvolgente attualità del messaggio di Piero Farulli, che sembrava parlarci oggi, con quello sguardo magnetico e potente, appunto, che buca lo schermo. Spero che anche chi non ha avuto la fortuna di conoscerlo abbia potuto capire chi fosse il Maestro, ma chissà…

Arriviamo al passato prossimo: dal 2012 al 2016 sei stato il primo rappresentante dei docenti della Scuola nel Consiglio di Amministrazione della Fondazione
È stata un’avventura che ricordo con grande gioia, soprattutto a distanza di tempo (allora fu tutto molto forte, e faticoso…). Ho imparato tanto e ce l’ho messa tutta, anche per vincere l’iniziale sospetto di qualche membro del CdA nei confronti di noi docenti: è stato necessario un lavoro di confronto e chiarimento, per spiegare ai più preoccupati che non c’era alcun intento sovversivo, nella presenza di un docente nel consiglio, perché in fondo la Scuola siamo noi, insieme ai nostri studenti.
Sono stato felice del contributo che tutto il corpo docente ha dato alle questioni istituzionali: in partenza le riunioni dei docenti erano piuttosto sparute nei numeri, ma dopo qualche tempo c’è stata una vera e propria presa di coscienza collettiva dell’importanza di un confronto reale e costruttivo tra di noi. Dopo qualche anno – avevo già terminato il mio mandato ed il rappresentante dei docenti era Luigi Manaresi – il collegio docenti ha approvato all’unanimità – in una seduta molto affollata – la bozza di modifica dello Statuto richiestaci dal CdA ed elaborata da una commissione di docenti nominata dai colleghi. È stato un momento di straordinaria importanza nella vita della Scuola, e lo ricordo con emozione.
Il coinvolgimento dei docenti nelle questioni istituzionali è un fatto importante e molto positivo, anche se il fermento che si è creato ha assunto in certi momenti una portata eccessiva: ogni quattro anni, al rinnovo delle cariche direttive, perdiamo molto tempo e molte energie… ma siamo fatti così. L’affetto per la Scuola è straordinario, e talvolta assume i connotati di un acceso tifo sportivo!

Hai ricoperto anche il ruolo di vicepresidente…
Fu in concomitanza della nomina di Paolo Fresco alla presidenza della Fondazione, nel 2015. Fresco volle affidarmi la vicepresidenza, che tenni per un anno e mezzo, fino alle sue dimissioni.
Fu un periodo difficile, una fase di passaggio in cui si parlava delle eventuali modifiche allo Statuto con una certa animazione e posizioni anche distanti. Credo che la presidenza di Paolo Fresco sia stata una grande occasione che non abbiamo saputo sfruttare appieno. La sua esperienza manageriale era preziosa, e avrebbe potuto esserci di grande aiuto, perché Fresco aveva assunto l’incarico con convinzione e desiderio di conoscere a fondo l’istituzione. Ma non fu capito.

Attualmente la Scuola non ha un vicepresidente
Penso che sia una questione abbastanza delicata, anche perché si tratta di una carica prevista dallo Statuto, con finalità pratiche, e non solo, immediatamente comprensibili: si tratta, tra l’altro, di completare la composizione della Giunta esecutiva, il “governo” della Scuola.
È indispensabile non solo la nomina di un vicepresidente, ma anche l’impegno costante e fattivo di un presidente che lavori per la Scuola ogni giorno, e che abbia una posizione di tale rilievo da consentirgli di essere un sostegno ed una difesa per la Scuola.
Per questo credo che Anna Ravoni, Sindaco di Fiesole e quindi Presidente della Fondazione, dovrebbe delegare l’incarico ad una personalità esterna. Di fronte ad una domanda specifica che le rivolsi, la risposta fu che il mantenimento della presidenza era dovuto alla necessità di cambiare lo Statuto… ma era il 2016!
Temo che il cambio dello Statuto sia futuribile e mi auguro che a breve siano possibili almeno le modifiche che ci riguardano più da vicino, quelle relative alla costituzione di un consiglio accademico e all’organizzazione didattica, ma per il resto è tutto da vedere. Confido in ogni caso che il CdA faccia un buon lavoro pensando ai prossimi decenni della Fondazione, non solo all’immediato futuro.

In questi ultimi tempi molti musicisti si dedicano all’organizzazione musicale, ma i NEM sono nati parecchi anni fa… vuoi raccontarci?
I Nuovi Eventi Musicali nacquero nel novembre 2001. C’era già una piccola stagione di concerti alle spalle, ma fondammo l’associazione con l’idea di fare qualcosa di nuovo e diverso, contando sull’appoggio di importanti personalità musicali fiorentine come Luciano Alberti.
Cinque giovanissimi musicisti (età tra i 18 ed i 23 anni!) componevano il consiglio direttivo: Mario Setti alla presidenza, Lorenza Borrani, Lorenzo Falconi (violista, ora all’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia), la chitarrista Martina Mattioli ed io. Venivamo tutti dalla Scuola, e non era un caso. Abbiamo parlato poco fa dell’attualità del messaggio di Piero Farulli: ricordavamo bene quante volte ci avesse ammonito a proposito del rischio che il musicista stesse “sull’albero a cantare”. Aveva come sempre ragione, e così siamo scesi dall’albero e ci siamo impegnati tantissimo nell’organizzazione.
Siamo passati dietro le quinte, e abbiamo imparato cosa vuol dire mettere in scena un quartetto, ideare un programma, fare un libretto di sala, invitare grandi personalità della musica internazionale. I NEM hanno ospitato, tra gli altri, Mstislav Rostropovič, Krzysztof Penderecki, Mauricio Kagel, Natalia Gutman, il Kronos Quartet… Avere a che fare con loro è stata un’avventura pazzesca… si dormiva poco, ma c’era tanta energia.
All’inizio il Maestro non la prese bene: era un po’ geloso di noi e della Scuola, così non capì subito che le nostre intenzioni erano la naturale conseguenza dei suoi insegnamenti; ci furono accese discussioni telefoniche. Però poi venne spesso ai nostri concerti, con quella sua capacità di “esserci”, fisicamente e con lo spirito, che ci arricchiva enormemente.
Se ci penso oggi, mi rendo conto che eravamo dei ragazzini, ma in quegli anni era possibile sognare. Attualmente è sempre più difficile gestire associazioni medio piccole, e quindi mi capita di parlare dei NEM al passato; mi auguro però che queste realtà non scompaiano, e lo dico anche come insegnante: non possiamo vivere solo di grandi istituzioni come il Maggio, la Scala o il San Carlo.

Coltivi anche l’attività solistica… dopo tanta musica da camera hai sentito l’esigenza di far da solo?
Dal punto divista discografico è successo per caso: fui contattato da una casa editrice francese, Editiòns Hortus, che aveva apprezzato le mie registrazioni cameristiche e mi spronava a dedicarmi al repertorio solistico. Inizialmente proposero di approfondire Brahms, uno degli autori che amo di più. Fui felice di farlo, e da quel momento l’attività solistica prese nuovo slancio.
Con Editiòns Hortus ho realizzato un cd ogni anno e mezzo, scegliendo di volta in volta un autore del quale presentare un’angolazione specifica: con questa intenzione ho registrato opere di Schubert, Chopin, Schumann, Debussy, Beethoven (approfitto qui per ricordare la fantastica esperienza del corso con Maurizio Pollini alla Chigiana nel 2001, che mi ha cambiato la vita) e ultimamente Bartók.
Se il supporto fisico rappresentato dal disco sta scomparendo, non si può certo dire altrettanto della registrazione, che anzi in questo periodo sembra ancor più vitale e necessaria. La sala di registrazione mi piace perché è un luogo di studio e approfondimento, alla ricerca una dimensione ideale che fotografa con precisione un momento del percorso di un musicista.

Un’ultima domanda sulla Scuola, visto che abbiamo da qualche mese un nuovo Direttore Artistico…
Sono stato tra coloro che hanno pensato ad Alexander Lonquich e insieme siamo andati a parlargli. Lui era piuttosto perplesso, soprattutto non riusciva a spiegarsi perché, alla precedente tornata elettorale, non avessimo accolto con entusiasmo la disponibilità di Lorenza, splendido frutto della Scuola.
Gli abbiamo chiesto aiuto, fidando nel suo spessore non solo musicale, ma anche intellettuale in senso lato. Alexander Lonquich è un artista di grande originalità, che ha sempre guardato avanti, ponendosi criticamente di fronte a molti aspetti della vita musicale, dal meccanismo dei concorsi al ruolo del docente, dall’importanza di una formazione multidisciplinare del musicista fino alla destrutturazione del “rito” del concerto.
Il voto dei docenti ha premiato la nostra iniziativa e adesso mi sembra che il nuovo Direttore si sia entusiasmato, entrando nel vivo del meccanismo con curiosità e convinzione.
La missione originaria della Scuola si è arricchita nel tempo e lui l’ha capito bene: vede Fiesole come un grande laboratorio, e del resto in fondo la Scuola è proprio questo. Cosa è stata l’Orchestra Giovanile Italiana negli anni ’80, se non un laboratorio? Lo stesso vale per la musica da camera, per i progetti dedicati all’infanzia…
Spero che presto Alexander Lonquich venga a farci visita nelle aule, così da toccare con mano il nostro lavoro: sono convinto che le sue idee e la sua guida ci aiuteranno in modo determinante a proiettare la Scuola nel futuro.

13 gennaio 2021

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