Collaboratore di Piero Farulli per tanti anni, ed ora docente del Corso di Perfezionamento di quartetto presso la Scuola, Andrea Nannoni è un insegnante fiesolano della primissima ora. Ci ha portato uno storico “reperto”, più eloquente di qualunque parola avessimo scelto per aprire la nostra conversazione: è il registro della sua classe di violoncello qui a Fiesole, nell’anno scolastico 1974-1975. Mentre lo sfogliamo insieme, la prima domanda arriva da sola, scompaginando la scaletta preparata in precedenza.
Che cos’era la Scuola di Musica di Fiesole allora, e chi erano gli allievi qui registrati?
La filosofia della Scuola era dare, a tutti coloro che lo desiderassero, la possibilità di avvicinarsi alla musica con una guida: all’epoca il conservatorio non prendeva i piccoli e non accettava (come tuttora del resto) i dilettanti. A Fiesole avevamo invece classi molto eterogenee, con allievi di tutti i tipi: ricordo medici di mezz’età, che avevano serie difficoltà a gestire lo strumento, e bambini anche molto piccoli.
Adesso però le cose sono cambiate…
Certamente, adesso anche i bambini possono essere ammessi al Conservatorio, dove frequentano i corsi preaccademici, anche se non è ben chiaro quale sarà il futuro di questi corsi, in relazione alla più recente riforma, che ha destinato i Conservatori all’istruzione di livello superiore. Sarà un terreno fertile di discussione per il futuro…
Ripartiamo dalla nostra scaletta: qual è stata la tua formazione?
Ho avuto la fortuna di poter lavorare con maestri che erano davvero tutti grandi personalità del mondo musicale, anche se al Conservatorio di Firenze, dove ho studiato, erano in un certo senso non perfettamente “a fuoco”, cioè non insegnavano la materia nella quale erano dei veri fuoriclasse. A cominciare dal compositore Luigi Dallapiccola (che insegnava pianoforte complementare!), per continuare con Franco Rossi – che avrebbe dovuto insegnare quartetto e aveva invece la cattedra di musica da camera con pianoforte; mentre Aldo Bennici, espertissimo conoscitore della musica contemporanea, insegnava invece quartetto.
Anche il mio maestro, l’indimenticabile Pietro Grossi, al mio arrivo stava prendendo altre strade: facevamo lezione dentro lo Studio di Fonologia Musicale, fondato da lui stesso nel 1963. Mentre suonavamo per lui, il maestro era spesso alle prese con i suoi macchinari, e alcuni allievi l’hanno seguito nell’interesse attivo per la musica elettronica.
Grossi era stato uno spettacolare concertista, ma non sono mai riuscito ad ascoltarlo in concerto dal vivo, perché aveva completamente lasciato l’attività per occuparsi a tempo pieno della sua passione per la tecnologia applicata alla musica.
Dopo il diploma ho avuto un rapporto abbastanza intenso con André Navarra, un grandissimo didatta per trent’anni in forza all’Accademia Chigiana. Le sue lezioni erano ambitissime, e vi si accedeva dopo una dura selezione agli esami di ammissione; in classe era severissimo e ipercritico, ma sempre costruttivo. Si prendeva carico dei problemi degli allievi e faceva di tutto per risolverli: gli studenti lo seguivano in pellegrinaggio ovunque insegnasse (Detmold, Vienna…), compatibilmente con le risorse a loro disposizione.
Anche il rapporto didattico con Amedeo Baldovino è stato per me molto importante:
uomo di rara intelligenza e di grandissima cultura, proveniva dalla stessa scuola di Grossi (entrambi allievi di Camillo Oblach a Bologna). Le sue lezioni sono state davvero un dono prezioso.
La musica da camera è arrivata molto presto…
Ho iniziato mentre frequentavo la scuola media annessa al Conservatorio, che aveva portato tanti ragazzini a scompaginarne l’atmosfera compassata. Lì è nato il Trio di Fiesole, con Andrea Tacchi e Gabrio Fanti: il nostro maestro era Franco Rossi. Abbiamo suonato insieme fino alla fine degli anni ’90.
Il Nuovo Quartetto è nato invece qui a Fiesole negli anni ’80: Tacchi era la spalla dell’Ort, Carlo Chiarappa primo violino del Maggio, e poi c’era Piero Farulli. E’ stata un’esperienza molto forte, ma piuttosto circoscritta nel tempo. Studiavamo insieme talvolta nel giardino della Scuola, la domenica, per non disturbare nessuno.
Intanto eri già un docente fiesolano, come abbiamo visto
La mia attività di docente alla Scuola non è stata continuativa: ho iniziato da subito, e ho partecipato alle peregrinazioni tra le prime improbabili sedi (dai locali della Banda, a quelli dei Vigili, fino alla Biblioteca, dietro il nuovo Auditorium); poi ho lasciato per qualche anno, mentre ero primo violoncello al Maggio. Successivamente ho cercato sempre di non sovrapporre gli incarichi: quando iniziai infatti non avevo ancora una classe di violoncello al Conservatorio, dove in principio il mio incarico fu per la musica da camera; poi viceversa, ho insegnato il violoncello al Conservatorio e qui solo musica da camera.
Firenze e Fiesole: un’inevitabile rivalità?
Il problema mi sembra molto più ampio, e non circoscritto solo a queste due istituzioni. La Toscana è molto vivace nel settore delle scuole di musica, così ci sono tante iniziative, più o meno grandi, ma comunque attive sul territorio. Per me sarebbe giusto fare un progetto comune, perché operando senza un coordinamento prima o poi il sistema entrerà in crisi, o comunque perderemo la possibilità di agire con efficacia ancora maggiore.
Com’era far musica con Piero Farulli?
Poteva anche essere molto scomodo, ma la cosa secondo me va inquadrata anche dal punto di vista generazionale. Tutti i maestri di quella generazione erano molto impegnativi: fare lezione con Grossi non era certo uno scherzo, e ricordo i volti pallidi degli allievi più grandi, di fronte alle sue aspre reprimende.
Lo stesso atteggiamento di grande severità contraddistingueva anche André Navarra, come pure Tortelier: erano maestri che vedevano gli allievi come dei giovani fortunati, che avevano a disposizione ciò che occorreva per lavorare con serenità, mentre per loro era stato tutto terribilmente difficile.
Piero non faceva eccezione, ma devo dire che era anche un uomo di grande generosità; aveva le sue idee (e qualche volta erano anche sbagliate), ma le ha perseguite fino in fondo con mirabile coerenza intellettuale. I frutti di questo rigore, innanzitutto con se stesso, sono sotto gli occhi di tutti, dalla parabola straordinaria del Quartetto Italiano alla Scuola di Musica di Fiesole.
Il legame di sangue ha contribuito a rendere ancora più forte la sua influenza?
Non so, sinceramente ho vissuto la sua vicinanza come una grande opportunità, ma certamente era molto esigente, e più o meno incontentabile. Niente andava bene, perciò era difficile mantenersi saldi nelle convinzioni circa le proprie possibilità; da giovani si tende ad essere “assoluti”, nel bene e nel male: invece bisognava continuamente cercare dentro di sé le energie per proseguire, anche a fronte di critiche molto aspre.
Si resta colpiti dalla differenza evidente fra la veemenza di Piero e la gentilezza che caratterizza il tuo modo di porti di fronte al discente
Come molte caratteristiche, anche questa probabilmente ha saltato una generazione… Scherzi a parte, ho seguito con molta attenzione quello che Piero faceva come didatta. Era straordinario come riuscisse, con il suo atteggiamento duro e assolutista, a far suonare proprio tutti; tuttavia non ero convinto che quel sistema fosse l’unico possibile. Negli anni ho sviluppato una mia modalità di approccio con gli allievi, che non prevede “l’uso della forza”, e ho constatato che i risultati possono essere ugualmente ottimi.
La tua esperienza didattica con Piero Farulli si è arricchita di tanti anni di condivisione della classe di quartetto, sia a Fiesole che all’Accademia Chigiana
Piero si rese conto subito che far lezione insieme, pur permettendoci di integrare a vantaggio dei ragazzi i suggerimenti di entrambi, aveva il difetto di prolungare di molto la durata della lezione, a svantaggio dell’organizzazione dell’orario della classe. Decidemmo dunque di separare i nostri interventi didattici, addirittura agendo su repertori diversi, in modo che i gruppi avessero per ciascun brano un solo docente di riferimento.
Una simile soluzione, a nostro avviso, risolveva il problema della lezione con più docenti: è molto probabile infatti che emergano tempi diversi, arcate diverse, metronomi differenti, anche quando gli insegnanti coinvolti siano tutti membri dello stesso ensemble, e suonino insieme da anni. D’altra parte suonare in trio o quartetto comporta inevitabili compromessi, metabolizzati durante le lunghe prove e la consuetudine al gioco di squadra, mentre nell’ascolto di un gruppo di allievi c’è maggior libertà, e in ciascuno degli insegnanti emerge una propria, personale visione della musica, cosa che rende difficile essere univoci riguardo ai consigli da dispensare ai discenti.
C’era qualche occasione in cui era necessario mediare, fra il maestro e gli allievi?
Qualche volta sono stato costretto ad intervenire, per salvare la situazione dopo che un’aggressione verbale aveva indotto un allievo a decidere di abbandonare il corso; d’altronde l’obiettivo da raggiungere era per Piero molto importante, perciò non risparmiava certo i rimproveri, e talvolta la resistenza psicologica degli allievi era inferiore al previsto. Credo che agisse in lui anche la convinzione che fosse giusto affidarsi ad un metodo già sperimentato con successo in tante altre occasioni, sebbene sapesse che i ragazzi possono avere reazioni molto diverse, di fronte a sollecitazioni simili.
C’è, in questo tipo di didattica, qualche altro aspetto dal quale hai scelto di discostarti?
Per la mia esperienza il rischio di questo sistema può essere forse rappresentato dall’allievo-fotocopia, che magari aderisce con efficienza al lavoro del didatta, ma quando resta senza l’insegnante si trova come svuotato, privo di contenuti propri. Se non siamo riusciti ad “accendere” il motore principale dell’allievo, l’assenza del maestro spegne tutto.
La cosa più bella che un insegnante possa fare è rendere il proprio allievo un musicista autonomo. Ho ancora oggi rapporti con i vecchi allievi, ma credo mi cerchino soprattutto per motivi affettivi: non hanno realmente bisogno di me, perché camminano benissimo con le loro gambe. Penso sia essenziale non creare un regime di dipendenza, neppure psicologica.
Come sono – o come sono cambiati – i ragazzi?
Credo che il livello strumentale sia negli anni salito, ma non vedo grandi differenze tra gli allievi del passato e quelli di oggi: forse adesso sono solo rassegnati all’evidenza della difficoltà nel trovare sbocchi professionali, e questo li rende disincantati e un po’ più cinici, direi.
Trovo giusto non illuderli, e renderli consapevoli di aver intrapreso un percorso tutto in salita: se intendono comunque proseguire, significa che hanno la testa abbastanza dura e che amano moltissimo quello che fanno.
Comunque non li incoraggio nel pessimismo: sono certo che avremo a breve un importante ricambio generazionale, ed è di loro che il nostro Paese avrà bisogno, da domani.
Nel frattempo però vanno all’estero…
Certo, e lo fanno per incrementare i loro titoli di studio, ma anche per motivi pratici: affittare una stanza da studenti è certamente meno oneroso in Germania che a Firenze oppure a Roma. Spesso non tornano, purtroppo; ma d’altra parte in altri Paesi il valore attribuito alla musica è molto maggiore, e si creano molte più opportunità…
E i docenti, sono cambiati?
Certamente. Trent’anni fa l’idea era che l’allievo dovesse essere totalmente a disposizione dell’insegnante e della musica, senza “distrazioni”, anche se queste erano rappresentate da altri studi; questa convinzione portò ad esempio alla chiusura del liceo del Conservatorio, che invece costituiva un’ottima soluzione per studiare di più, eliminando i tempi morti di spostamento fra una scuola e l’altra.
Oggi tutti i docenti sono perfettamente consapevoli che i ragazzi debbano avere più frecce al loro arco, e incoraggiano la prosecuzione anche di altre attività formative.
Cosa viene richiesto ai giovani musicisti oggi?
Adesso è necessario non solo essere molto bravi, ma anche particolarmente rapidi: pochi giorni di prova per un concerto in orchestra, breve preavviso per partecipare ad un progetto cameristico, immediata prontezza per rendersi disponibili ad una sostituzione dell’ultima ora… E’ necessario avere una preparazione molto accurata, ma anche una capacità di “metabolizzare” velocemente. Purtroppo talvolta anche tutto questo non basta, e paradossalmente sono proprio i più bravi ad essere più a rischio, se non riescono ad ottenere ciò che sono consapevoli di meritare, perché la frustrazione è in agguato.
Credo che però amare la musica significhi anche non sentire il peso del sacrificio che essa comporta, e anche studiare le scale è un piacere – come cerco di far capire sempre ai miei allievi -, quando ti accorgi che la mano si scioglie e tutto comincia a funzionare.
I quarant’anni della Scuola di Musica di Fiesole sono un buon momento per fare il punto. Cosa vorresti dalla Scuola di domani?
E’ difficile dare indicazioni alla Scuola, dove tutto è sempre stato così pensato… è un piatto ricco, al quale non saprei aggiungere ancora qualcosa.
Credo che sia importante utilizzare il vantaggio della maggior agilità della Scuola rispetto ad altre istituzioni, per tenere attivi tutti i sensori che consentano di intravedere e disegnare il futuro.
Penso spesso a quanti talenti restino inespressi perché nessuno li ha riconosciuti e coltivati; il nostro Paese non ha saputo rendere sistematica la ricerca dei talenti e la cura per il loro sviluppo, non solo in campo musicale, ma direi in tutti i settori.
Quando penso alla scuola russa, mi appare evidente che, oltre agli strepitosi insegnanti e ai giovani dotati, c’era un sistema perfettamente organizzato che agiva in modo capillare a tutti i livelli, producendo risultati che sono stati per decenni sotto gli occhi del mondo intero.
Anche il sistema Abreu – che mi commuove per la capacità di salvare i ragazzi dalla strada con la musica, un’idea davvero rivoluzionaria – ha contribuito a drenare talenti, facendo emergere nuovi e insospettati musicisti, da uno dei paesi più poveri del mondo.
Noi abbiamo gli strumenti per alzare ancora di più il livello, ma è la pianificazione che manca. Non si può pensare che la musica sia qualcosa di importante, se non è da nessuna parte, né nella scuola, né sui mezzi di comunicazione. E’ così di nicchia che potrebbe sparire, ed è questo che succederà se non invertiremo questa tendenza, inserendo l’insegnamento della musica in tutti i gradi di istruzione.
Credo che la missione della Scuola sia continuare ad insistere in questa direzione, come ha fatto Piero Farulli con voce tonante per tanti anni. Qualcosa da allora è cambiato, e dobbiamo darci da fare per avere una svolta ancora più decisa, portando la musica anche fuori dalla Scuola, davvero a tutti.
a cura della redazione